Dio è bello, e questa bellezza risplende sulla sua Chiesa e su tutto il creato.
La bellezza - in modo speciale la bellezza trascendente di Dio - è da contemplare e di essa possiamo gioire, ma è anche una forza stimolante d'azione pastorale. Così, è possibile far sintesi tra contemplazione e azione. Dio è bellezza, perché Dio è amore e l'amore è bello. La prima enciclica di Benedetto XVI tratta precisamente di questo tema: Dio è amore, Deus caritas est. Il Papa si richiama alle parole tratte dalla prima lettera di Giovanni: «Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (4, 16). Esse esprimono con chiarezza qual è il centro della fede cristiana: l'immagine di Dio amore e la conseguente immagine dell'uomo e del suo cammino. Se Dio è amore, anche l'uomo - fatto a immagine di Dio e reso figlio di Dio per la fede e il battesimo deve «essere amore».
L'amore diventa, così, la chiave di tutto il creato, della storia dell'umanità e del singolo uomo. L'amore è la ragione di tutto, è il lògos di tutto, è la verità profonda di tutto, sia di Dio sia della sua creazione. Questa è la bellezza di Dio, che si rispecchia in tutto il creato. La verità di Dio è bella, perché è amore. Perciò, è bello essere figli di Dio, essere cristiani. È bello essere la Chiesa di Dio, essere il suo popolo!. Questa bellezza dobbiamo annunziare al mondo.
La bellezza è anche il tema portante del libro sinodale - intitolato Una Chiesa pellegrina sulla via della Bellezza - pubblicato a conclusione della recente assise dell'arcidiocesi di Chieti-Vasto. E’ un testo che merita una particolare attenzione perché rappresenta una sorta di compendio del messaggio conciliare quale è stato recepito in questi quarant'anni. Lo aveva scritto nel suo testamento Giovanni Paolo II: «Sono convinto che le nuove generazioni avranno ancora modo di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito». E Benedetto XVI ha parlato del Concilio come della «bussola per navigare nel mare aperto del nuovo millennio». Su questo solco il sinodo diocesano ha espresso un forte richiamo al coraggio dell'evangelizzazione, per lanciarsi senza timore al centro della società contemporanea e portarvi la buona novella.
La buona novella è questa: c'è un Dio, che è amore, un Dio che ci ama e viene a noi, per porre la sua dimora fra noi e farci partecipi della sua vita immortale, eterna e felice, della sua bellezza.
La bellezza di Dio si realizza pienamente nel mistero della Trinità divina, che è il modello della Chiesa: in questo senso, la Chiesa è «icona» della Trinità. Dio, poiché è amore, non vive in solitudine, ma, restando sempre uno e unico, è anche comunione di tre Persone eterne, che si amano infinitamente. Questa unità trinitaria è il modello della Chiesa, come ribadisce I'Unitatis redintegratio: «Il supremo modello e principio del mistero dell'unità della Chiesa è l'unità nella Trinità delle Persone di un solo Dio Padre e Figlio nello Spirito Santo» (n. 2). Alla contemplazione della comunione trinitaria si unisce nel documento sinodale la riflessione sulla comunione ecclesiale.
Il Concilio Vaticano II insegna che la Chiesa di Cristo è un mistero, che nasce dal mistero della Trinità e si costituisce in un mistero di comunione secondo il modello trinitario. Da questa sua natura deriva che «la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium, 1). La stessa celebrazione di un sinodo diocesano evoca la comunione ecclesiale, sia come stile di vita della comunità ecclesiale, sia come esperienza di Chiesa pellegrina che cerca di mantenersi unita nel cammino, immersa nella storia e tesa verso la consumazione finale in Dio. La stessa parola sinodo significa «camminare insieme», secondo il modello della Trinità, la cui unità non sopprime, ma accoglie la distinzione tra le tre Persone divine. Così, anche l'unità della Chiesa non rifiuta, ma include la diversità dei ministeri, dei carismi, delle vocazioni, delle spiritualità, delle pratiche pastorali, dei doni, che sono la ricchezza della comunità e devono essere vissuti ed esercitati in comunione, in favore del bene di tutti. Partendo dal mistero trinitario, da cui scaturisce la Chiesa, si rende chiaro che è l'amore, in tutte le sue dimensioni, a costituire e dare ordinamento alla comunione ecclesiale.
La logica dell'amore deve essere la logica della comunione ecclesiale. La conseguenza è che tutti i fedeli, a cominciare dai ministri ordinati, devono essere sempre in comunione con i loro pastori. A loro volta i pastori devono custodire e promuovere una comunione ecclesiale che includa la legittima diversità dei ministeri, dei carismi, delle spiritualità e così via, procedendo costantemente e fedelmente in un discernimento di queste diversità, dato che lo Spirito Santo è principio dell'unità e della diversità nella Chiesa. Questa comunione ecclesiale, questa unità nella diversità, si celebra, si edifica e si nutre nella e dall'Eucaristia.
Da queste premesse, il libro del sinodo trae l'indicazione di alcune importanti priorità e iniziative pastorali. Ne sottolineo due: la prima è quella della carità e dei poveri. Se Dio è amore, la carità, in tutti i suoi aspetti, è il centro della vita ecclesiale. Si legge nel documento: «La via per raggiungere tutti credibilmente con l'annuncio della buona novella e per costruire autentici ponti di dialogo e di solidarietà è per il discepolo di Gesù la carità» (n. 14). Lo stesso Papa Benedetto XVI - il 13 maggio 2007 - nel suo discorso inaugurale della quinta conferenza generale dell'episcopato latinoamericano e caraibico in Brasile affermava: «L'opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci con la sua povertà» (n. 3). C'è qui un grande richiamo alla compassione attiva alla condivisione del pane, al servizio fraterno a tutti i poveri della terra, ad una solidarietà efficace ed intelligente verso di loro. I poveri sono sempre più frequentemente alla nostra porta, dappertutto, anche qui in Europa. L'opzione preferenziale per loro è segno della nostra fedeltà a Gesù Cristo.
Oltre alla carità e ai poveri, mi pare importante sottolineare la decisione del sinodo di rinnovare la coscienza e l'attività missionaria nell'arcidiocesi. Sono sicuro che la Chiesa, oggi più che mai, debba rilanciare la propria natura missionaria, non solamente ad gentes, ma nello stesso territorio, dove è già organizzata e stabilita, spesso da secoli. Tutti sappiamo che la maggioranza dei cattolici battezzati non partecipa ordinariamente, o a volte per nulla, alla vita delle comunità ecclesiali. Questo accade, normalmente, non perché sono peggiori degli altri che partecipano, ma perché non sono stati sufficientemente evangelizzati. Nessuno li ha portati a un incontro forte e personale con Gesù Cristo, un incontro che segnasse la loro vita e la trasformasse, un incontro in cui cominciare ad essere veri discepoli di Cristo. Questo significa missione: andare a cercare i battezzati, e anche i non battezzati, per annunciare loro, di nuovo o per la prima volta, il kèrygma, cioè, la persona di Gesù Cristo, morto sulla croce e risorto, e il suo Regno e condurli a un incontro personale con Lui. Un vero discepolo è un entusiasta di Cristo e del suo Regno, perché in Cristo ha fatto l'esperienza fondamentale che Dio ci ama. Perciò, sente in sé l'impulso forte di annunciare a tutti la gioia e la felicità di questa esperienza. Così, diventa anche lui un missionario.
Ecco la grande sfida per i sacerdoti, per i consacrati e per i laici: diventare dei missionari, anzitutto nel loro stesso ambiente, nel territorio della propria parrocchia. Dobbiamo raggiungere di nuovo la gente cattolica, li dove abita e lavora, soprattutto i poveri nelle periferie urbane e nelle campagne, ma anche tutti i livelli della società e delle istituzioni. Ovviamente, dobbiamo anche partecipare alla missione ad gentes, ossia in quei territori in cui Cristo ancora non è stato annunciato. Ma, il futuro della Chiesa dipende, in grande parte, dalla nostra capacità di essere concretamente missionari in mezzo agli stessi battezzati, tante volte poco o per niente evangelizzati. Tutto questo rinnovamento della vita cristiana e le innovazioni pastorali e missionarie, alla luce del Concilio Vaticano II, richiedono anzitutto che gli stessi operatori pastorali si rinnovino nella loro sequela di Gesù. Per essere buoni missionari, si richiede che siamo veri discepoli di Cristo, che ascoltiamo e seguiamo il maestro, con gioia e determinazione, ovunque egli ci porti, investendo in lui tutta la nostra vita. Pellegrini, sulla via della bellezza.
Il testo è tratto da“L’Osservatore Romano”del 9 gennaio 2008. Resto a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza di questo testo sul mio sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. |